Lo stendardo Merida
«Un toccasana per le ossa…» mormorò con soddisfazione il vecchio stendendo le gambe sottili, che lanciarono di rimando preoccupanti scricchiolii di disapprovazione. Il sole caldo del primo meriggio illuminava la veste di semplice color lino e ravvivava d’intenso la fusciacca arancio che fasciava la vita sottile dell’uomo, per poi scivolare morbidamente fino quasi alle caviglie.Anche ora che quasi settanta estati mi hanno rinsecchito fino al midollo, continuo a chiedermi dove traesse quella serenità il mio maestro. Allora ero poco più che un ragazzo, o poco meno di un uomo guardandomi dal lato giusto della lente. Ogni giorno seguivo il mio maestro per vicoli e strade di Piazza del Sole, e ogni giorno mi domandavo se l’aria di placida tranquillità che il mio maestro irradiava con la stessa facilità con cui il Sole illumina il mondo, fosse per via della veneranda età o se, per caso, non fosse una sua specialità, tra le tante che aveva.
Accanto al muricciolo semi diroccato dove eravamo seduti si apriva una piazza deserta, all’orizzonte si intravedeva la Torre del Palazzo dei Principi, immersa nell’ombrosa vegetazione del quartiere di Corte Verde. Lo stendardo merida garriva al debole vento del deserto, che spirava da sud.
«Cosa stiamo guardando? » Aveva volto gli occhi al mio stesso indirizzo.
«E’ lo stendardo del nostro Principato, Maestro» risposi con esitazione, cercando di capire se ci fosse un doppio significato nella sua domanda. Poi continuai.
« Lo Scudo Rosso come il fuoco e Giallo come la sabbia dorata, su cui campeggia la maestosa testa di Leone.»
Il vecchio annuì, quindi mi indicò un punto all’angolo più lontano della piazza in cui stava accadendo qualcosa. Un ladruncolo scalzo correva velocemente verso di noi, inseguito da due guardie cittadine armate di picca. Il ragazzo perdeva terreno.
Quasi sotto ai nostri occhi le guardie si avventarono su di lui. Avrà avuto più o meno la mia età, ma non conobbe un nuovo sole. Gli uomini della guardia lo colpirono a morte, e mentre il sangue si spargeva rapidamente a terra frugarono il corpo alla ricerca di qualcosa. Trassero un piccolo involto dalla tunichetta lacera e se ne andarono.
Il sangue continuava ad allargarsi. La mia gola a restringersi.
«Cosa ci insegna questo? » Una voce lontana, praticamente non l’udii.
«Cosa stiamo guardando, mio giovane amico? » la voce paziente del vecchio ruppe l’orrore.
«Maestro, cosa? Io…» non sapevo se essere più imbarazzato per non aver capito il suo insegnamento, o per essere tanto disgustato dalla vista del sangue. Lo stomaco sussultò.
«Maestro, perdona la mia debolezza, ma non so cosa rispondere».
Il vecchio sorrise piano, il bianco degli occhi si fece per un momento più liquido, e il suo viso di bruna corteccia si scavò di più profonde venature.
«Lo stendardo di Meridia naturalmente. Eccolo lì. Gli sciocchi guardano in alto per mirarlo con orgoglio, e invece sprecano forze ad alzare la testa, giacché è proprio qui sotto i loro occhi, ogni giorno. La terra è gialla come la sabbia del deserto, e il sangue che l’arrossa, ecco, vedi? Ha il colore cremisi del fuoco. Infine…» Si interruppe.
Il maestro assunse un’espressione complice, alzò un sopracciglio e mi guardò come se mi stesse confidando un divertente segreto.
«… infine, se si osserva con attenzione, sul sangue e sulla rena si può scorgere il leone, o meglio si può scorgere la sua ombra. » Il vecchio ridacchiò. Poi tacque, mi mandò a prendergli datteri e succo d’uva fresco, e non mi disse altro.
Ancora oggi mi chiedo che cosa il grande Teofilo il Sapiente abbia cercato di insegnarmi quel giorno.
Autore
Racconto storico di autore ignoto.